Perdonatemi questa mia virtù

Perdonatemi questa mia virtù

Una stanza diroccata: qua e là pietre sparse per terra. Entra il narratore. 



Narratore: C’era una volta un povero bambino e non aveva papà e non aveva mamma, erano morti tutti, e non c’era più nessuno al mondo. Tutti morti, allora lui è partito e ha cercato giorno e notte. E siccome sulla terra non c’era più nessuno, ha voluto andare in cielo: c’era la luna che lo guardava così buona; e quando finalmente era arrivato alla luna, quella era un pezzo di legno marcio. E allora è andato dal sole e quando era arrivato al sole, quello era un girasole appassito. E quando arrivò dalle stelle, erano dei moschini d’oro, che erano infilati, come li infila l’averla sul prugnolo. E come lui volle tornare sulla terra, giunse in una pentola capovolta; incontrò un angelo e lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora.

Entrano il clochard e l’angelo. Ingaggiano una lotta.



Angelo: Lasciami andare, perché è spuntata l`aurora.
Clochard: Chi sei? 



L’angelo e il narratore escono.



Clochard: Che tu sia uno spirito benigno o un demone dannato,
che rechi con te auree di paradiso o raffiche d’inferno,
che le tue intenzioni siano malvagie o pietose, 

vieni con una forma così ambigua, 

sei una bizzarria del mio spirito? 

Io penso che i fantasmi, in generale, non siano altro in fondo che piccole scombinazioni dello spirito: immagini che non si riesce a contenere nei regni del sonno: si scoprono anche nella veglia, di giorno, e fanno paura. Io ho sempre tanta paura, quando di notte me le vedo davanti – tante immagini scompigliate, che ridono, smontate da cavallo. – Ho paura talvolta anche del mio sangue che pulsa nelle arterie come, nel silenzio della notte, un tonfo cupo di passi in stanze lontane… (Raccoglie un teschio rotolato sul pavimento). Buffoni! Buffoni! Buffoni! – Un pianoforte di colori! Appena la toccavo: bianca, rossa, gialla, verde… buffoni spaventati! E si spaventano solo di questo, oh: che stracci loro di dosso la maschera buffa e li scopra travestiti; come se non li avessi costretti io stesso a mascherarsi, per questo mio gusto qua, di fare il pazzo! Ogni teschio aveva una lingua, dentro, e poteva cantare, una volta. Potrebbe essere la zucca di un politicante, di cui quest’asino adesso si fa gioco: uno che avrebbe raggirato Iddio, non potrebbe essere? O di un cortigiano, che sapeva dire: “Buongiorno, dolce signore; come state, buon signore?” Questo potrebbe essere monsignore tal dei tali, che lodava monsignore tal dei tali quando voleva farsi dare qualcosa, non potrebbe essere? (Entra l’angelo. Tira un carrettino con una corda). Già, proprio così, e ora è della Signora Verme, smascellato e picchiato sulla capoccia dalle mani di un personaggio: ecco una bella rivoluzione, se avessimo l’arte di capirla. Costò così poco tirar su queste ossa che ci si può giocare a birilli? Le mie mi dolgono a pensarci. Perché non potrebbe essere il teschio di un avvocato? Dove sono ora le sue quiddità, i suoi quissimili, le sue cause, le sue questioni di proprietà, e i suoi trucchi? Perché sopporta ora che questo zotico furfante lo picchi sul cocuzzolo e non gli ingiunge causa per aggressione? Uhm! Questo tizio poteva essere a suo tempo un grande compratore di terre, con le sue ipoteche, le sue obbligazioni, i suoi compromessi, le sue doppie garanzie, i suoi riscatti. È questa la fine dei suoi fini, e il riscatto dei suoi riscatti, di avere la sua fine zucca riempita di polvere fine? Le sue garanzie non gli garantiscono, per i suoi acquisti, anche per quelli doppi, più spazio, in lunghezza e larghezza, d’un paio di fogli dentellati? Gli stessi titoli d’acquisto delle sue terre starebbero a malapena in una scatola; e lo stesso proprietario non deve averne di più, eh? (All’angelo). Chi siete? Tu chi sei? Lui chi era?


Angelo: Un pazzo figlio di puttana era, chi pensi che era? Gli prenda un canchero, se non era un pazzo furfante! Questo, signore, era Yorik il buffone. (Passa la corda del carrettino al clochard). 


Clochard: Ahimè, povero Yorik! Lo conoscevo, un tipo di un’arguzia infinita, di una straordinaria fantasia. Mi ha portato sulle spalle mille volte, e ora com’è repellente nella mia immaginazione! Lo stomaco mi si rivolta. Qui stavano appese quelle labbra che ho baciato non so quante volte. Dove sono ora i tuoi lazzi? Le tue capriole, le tue canzoni, i tuoi lampi d’allegria, che facevano scoppiare dalle risa l’intera tavolata? Non uno solo ora, a farsi beffe del tuo ghigno? Ti son cascate le ganasce? Un dito di trucco… a questo aspetto ci si riduce. Quando cade la maschera, una buona volta, come in una camera tutta specchi, vediamo dappertutto quest’eterna testa d’idiota, unica e multipla, niente di più, niente di meno. (Adagia il teschio nel carrettino. Estrae dei birilli e li sistema tra le pietre). Le differenze non sono tanto grandi, tutti sono angeli e mascalzoni, stupidi e geni, e ogni cosa insieme: ciascuna di queste quattro cose trova posto sufficiente nello stesso corpo, non sono così ingombranti quanto si immagina. Dormire, digerire, fabbricare bambini… il resto sono soltanto variazioni sullo stesso tema, di diverse tonalità. Per questo bisogna alzarsi sulla punta dei piedi, assumere facce di circostanza, per questo bisogna mettersi a disagio l’uno con l’altro! Abbiamo mangiato tutti a crepapelle alla stessa tavola fino a farci venire il mal di pancia; continuate a tenere il tovagliolo davanti alla faccia? Perché non gridate e ridete come più vi piace? Valeva proprio la pena d’ingrassarsi così e tenersi ben caldi. Tanto lavoro per il becchino. Caro il mio corpo, voglio tapparmi il naso e immaginare che tu sia una donna che dopo aver ballato suda e puzza, e voglio farti dei complimenti. Del resto ce la siamo già spassata insieme più di una volta, noi due. Verrà il giorno in cui sarai un violino spezzato; la melodia che ci suonavi sopra è finita. Domani sarai una bottiglia vuota, il vino è tutto bevuto, nessuna ebbrezza me n’è rimasta e sono lucido… È gente felice quella che può ancora ubriacarsi. Domani sarai un calzone sdrucito; ti butteranno nel guardaroba e le tarme ti mangeranno, puoi puzzare finché vuoi e ridere con loro. Una risata nuova. Una risata grassa. Di quelle che arrivano lontano, si perdono nelle distanze. Fatte per raccontare tutto. L’ultimo è rimasto dietro e si affanna, urla. Non riesce a parlare sottovoce. Urla. Deve correre, entrare nell’olimpo di chi guarda sul mondo. Non immagina,   poverino,   d’essersi   perso    nel tempo. Potrebbe fermarsi – è solo un’illusione – tanto ognuno guarda dalla sua parte, col suo tovagliolo sulla faccia, fino al traguardo finale. Eccolo è lì, un imbroglio colossale. Troppo tardi per accorgersene e tornare indietro. La corsa è finita. Almeno l’ultimo può urlare. Senza saperlo, ha scompigliato un po’ le carte. E ora, gli è rimasta l’ultima risata. È arrivato tardi e può godersi lo spettacolo. L'hanno allestito quelli che lo precedevano: tante pance piene di cose inutili scoppiate e volate per aria. Non basta una maschera a trattenerle. Accidenti! Guarda, è fermo sull’orlo del precipizio. Ha paura… Fermati, no! Ha avuto paura di salvarsi. S’è buttato giù. Ha raggiunto gli altri. Anche l’ultimo ha fatto come tutti. Si sentiva solo. Salutami Yorik, digli che mi ha insegnato a indossare le maschere. Le ho indossate, le conosco, grazie ad un buffone. Come un attore distinguo il vero dal falso. Le metto quando voglio, per smascherare l’incoscienza. Ho la mia trappola per topi.
Angelo: Svegliati prima possibile, cerca di prendere il cielo per mano.
Clochard: Chi sei? Non ti offendere. Non dicevo mica a te! Le cose vere non hanno sapore. Conviene ingoiarle senza guardarle. Conquistiamo le vette, il cielo, le orbite degli astri… solo per poterne parlare. (Estrae delle bocce dal carrettino e colpisce i birilli). Non ci lasciamo toccare. Non si resiste a lasciarsi toccare. Potrebbero restare dentro, andare a memoria, sorgere improvvise, portare lontano, fare dubitare… A volte capita che un lembo s’illumini; voltiamo la faccia dall’altro lato, spaventati. Così insultiamo la felicità e corteggiamo la vanità, la menzogna… e tutto quanto potrebbe risplendere diventa un imprevisto turbamento. Se provi a raccontarlo, vedi solo occhi sbarrati dallo spavento. State calmi, mica dovete crederci per forza! I più bravi resistono fino in fondo, sai. Dimenticano facilmente. Così non li sfiora più il pensiero di un tempo in cui tutti potevano essere felici. Stendono un velo sul posto ulcerato, mentre la fetida corruzione, che tutto mina dentro, infetta non veduta. Confessatevi al cielo, e non spargete concime sulle erbacce per renderle più fetide. Perdonatemi questa mia virtù perché, nella pinguedine di questi tempi obesi, la virtù stessa deve chiedere perdono al vizio, sì, deve piegarsi e supplicargli il permesso di fargli del bene. Chi sei? 
Angelo: Da spaccare il cuore in due. 


Clochard: Oh, se ne avessero uno potrebbero 
gettare via la parte peggiore, 
e vivere più puri con l’altra metà. 
Perché il potere della bellezza fa prima 
a trasformare l’onestà in una ruffiana, di quanto la forza dell’onestà può volgere 
la bellezza a sua somiglianza. Una volta questo era un paradosso, ora i tempi lo provano. 
Le nostre usanze sono 
più onorate nell’infrangerle che nell’osservarle. 

Ad oriente e ad occidente ci espongono 

alla maldicenza e al ludibrio delle altre nazioni. 
Ci chiamano ubriaconi, e dandoci di porci 

insidiano il nostro onore; e ciò toglie, in verità, 

alle nostre imprese, anche alle più alte, 

il nerbo e il midollo della reputazione. 

Così accade spesso anche agli uomini, 


che per qualche perverso neo della natura, 

un neo di nascita, di cui non sono colpevoli 
(poiché la natura non può scegliere la propria 
origine), 

per l’eccesso di qualche umore 
che spesso travolge le palizzate e i forti della ragione, 
o per qualche abitudine che troppo penetra 
la forma delle accettabili maniere – accade, ripeto, 

che questi uomini, per l’impronta di un solo difetto, 

sia esso livrea della natura o stella della sorte, 

vedono corrompersi nel giudizio generale, 
per quel difetto particolare, tutte le loro virtù, 


per quanto pure come la grazia e infinite 
nella misura che è possibile all’uomo. 

Una goccia di male 
spesso contamina tutto ciò che è nobile, 

e ne fa scandalo. 
Un’anima cara, padrona delle sue scelte, 
sa discernere fra gli uomini chi eleggere, 
suggellando chi soffrendo tutto non soffre nulla, 

un uomo che i colpi e le ricompense della Fortuna 
ha accettato con uguale ringraziamento; e benedetti sono quelli 
in cui passione e ragione sono così ben mescolate 

che essi non sono flauti che il dito della Fortuna 
può suonare al tasto che le piace. Datemi 

quell’uomo 

che non è schiavo della passione, e io lo porterò 

nel profondo del mio cuore, sì, nel cuore del mio 
cuore. 

Tirando il carrettino, si aggira per la stanza... Si ferma. 



Clochard: Si dovrebbe poter comandare alla luna un bel raggio decorativo… Giova, a noi, giova, la luna. Io per me, ne sento il bisogno, e mi ci perdo spesso a guardarla… Chi può credere a guardarla che siano passati tutti questi anni… Potrei essere confinato in un guscio di noce e stimarmi re di una spazio infinito, se non fosse che faccio brutti sogni. 



Entra la visione.

Visione:
L’irsuto Pirro, la cui fosca armatura, 

nera come il suo intento, alla notte somigliava, 

mentre egli quatto se ne stava dentro al fatal cavallo,
pur ora a tal truce nera sembianza 


di più sinistro stemma imbrattato: da capo a piè
egli è ora tutto vermiglio, del sangue adorno

orridamente di padri e madri e figlie e figli,
cotto e incrostato dalle avvampanti strade 


che tiranna e dannata luce imprestano 

del loro signore all’assassino. 

Bruciato dal rogo e dal furore,
e così cosparso di raggrumato sangue, 

con occhi di carbonchio, l’infernale Pirro 

del vecchio sire, Priamo, va in cerca… 

Tosto lo trova 

ai Greci menar corti colpi, ché l’antica spada,
ribelle al braccio, dove s’abbatte resta, 

sorda al comando. In disugual tenzone, 

su Priamo Pirro s’avventa, e per l’ira a vuoto mena, 

ma al soffio e al vento della sua empia spada 

cade lo snervato padre. Indi l’inanimata Ilio 

pur sente il colpo e la fiammante cima
china alla base, e con orrendo schianto

di Pirro fa prigionier l’orecchio. Ché, ecco,

la sua spada, già calante sul latteo capo 


di Priamo venerando, parve figgersi nell’aria; 

così, quale tiranno dipinto, Pirro ristette
e, come svagato al suo compito e intento, 

nulla si fece.
Ma come spesso vediamo, avanti una tempesta,
un silenzio nei cieli, immobili i nembi,
muti i baldanzosi venti, e l’orbe sottostante

in un morto silenzio, d’un subito il pauroso tuono
l’etere squarcia; così, passato quell’istante, si sveglia 

in Pirro la vendetta e all’opra ancor lo pone;
e mai percossero i martelli dei Ciclopi
l’armi di Marte, forgiate a prova eterna, 

con minor rimorso di quanto ora di Pirro la spada sanguinante
su Priamo s’abbatte.
Via, via, Fortuna sgualdrina! Voi tutti, dèi,
in sinodo adunati, toglietele il potere,

rompete i raggi e i cerchi della sua ruota 


e lanciatene il tondo mozzo giù 
pel colle del cielo,
che ai demoni sprofondi. 


Ma chi, ahimè, veduto avesse la regina imbacuccata
di qua, di là, correre scalza, le fiamme
minacciando con lacrime accecanti,

sul capo un cencio

dove già stette il diadema, e come veste 

attorno ai magri troppo fecondi lombi 

una coltre afferrata nell’allarme e la paura – 
chi ciò veduto avesse, con lingua di veleno intinta,

tradimento avrebbe pronunciato

contro il governo della Fortuna; 


ma se gli stessi dèi l’avessero veduta, 

quand’ella vide Pirro prender diletto atroce 

smembrando con la spada il corpo del marito,
il subito scoppiar gridando ch’ella si fece
(se pur li muovono affatto cose mortali)

avrebbe inumidito gli ardenti occhi del cielo
e mosso le passioni negli dèi. 




La visione esce. L’angelo ingaggia una lotta col Clochard. Durante la lotta lo colpisce all’anca con un birillo. Entra il narratore. 



Narratore: Questi, vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpì all’articolazione del femore e l’articolazione del femore si slogò. Mentre continuavano a lottare, gli disse… 

Angelo:
Lasciami andare, è spuntata l'aurora. 


Clochard: Chi sei? 


Angelo: Perché mi chiedi il nome? Hai combattuto con Dio e con gli uomini…

Il narratore esce. L’angelo rimette birilli e bocce nel carrettino e, portandolo con sé, lo segue. 

Clochard: Trovarsi davanti a un pazzo sapete che significa? Trovarsi davanti a uno che vi scrolla dalle fondamenta tutto quanto avete costruito in voi, attorno a voi, la logica, la logica di tutte le vostre costruzioni! – Eh! Che volete? Costruiscono senza logica, beati loro, i pazzi! O con una logica che vola come una piuma! Volubili! Volubili! Oggi così e domani chi sa come! – Voi vi tenete forte, ed essi non si tengono più. Volubili! Volubili! Voi dite: “Questo non può essere!” – e per loro può essere tutto. – Ma voi dite che non è  vero. E perché? – Perché non par vero a te, a te, a te, e centomila altri. Eh, cari miei! Bisognerebbe vedere poi che cosa invece par vero a questi centomila altri che non sono detti pazzi, e che spettacolo danno dei loro accordi, fiori di logica! Io so che a me, bambino, appariva vera la luna nel pozzo. E quante cose mi parevano vere! E credevo a tutte quelle che mi dicevano gli altri, ed ero beato! Perché guai, guai se non vi tenete più forte a ciò che vi par vero oggi, a ciò che vi parrà vero domani, anche se sia l’opposto di ciò che vi pareva vero ieri! Guai se vi affondaste come me a considerare questa cosa orribile, che fa veramente impazzire: che se siete accanto a un altro, e gli guardate gli occhi – come io guardavo un giorno certi occhi – potete  figurarvi come  un  mendico  davanti  a  una porta  in cui non potrà mai entrare: chi vi entra, non sarete mai voi, col vostro mondo dentro, come lo vedete e lo toccate; ma uno ignoto a voi, come quell’altro nel suo mondo impenetrabile vi vede e vi tocca…
Angelo (fuori stanza): Perché sembra così particolare a te?
Clochard: Io non conosco sembra.
Sembrano le azioni che un uomo può recitare.
Ma io ho dentro ciò che supera ogni scena.
Questi non sono che i drappi e i costumi del dolore.
Via, via, allora, quest’abito da mascherato! Quest’incubo! Apriamo le finestre: respiriamo la vita! Via, via, corriamo fuori!
(Arrestando d’un tratto la foga). Dove? A far che cosa? A farmi mostrare a dito da tutti, di nascosto… tra i cari amici della vita? (Pausa). Sì... per forza... insieme... e per sempre, voi e il matto! Perdonatemi questa mia virtù. (Esce). 


 
 



Percorso drammaturgico da G. Büchner, W. Shakespeare, L. Pirandello.