L'inferno da Auschwitz a Birkenau

L'inferno da Auschwitz a Birkenau

La Divina Commedia sarebbe
un’opera di grande sensazione
se Dante invece che all’Inferno
fosse stato nei campi di concentramento

(Alina Szuman, Auschwitz 1944)


Pasquale Gerardo Santella: Il viaggio

Hai letto sull’argomento documentati saggi storici, diari, memoriali, testi di narrativa e di poesia; hai ascoltato le parole dei testimoni del tempo, hai visto documentari e film, osservato opere d’arte; hai sfogliato album di foto, disegni e fumetti; hai ascoltato brani di musica e canzoni; hai fatto lezioni in classe ai giovani, ne hai parlato in incontri cui sei stato invitato, hai progettato e realizzato performances teatrali nel “Giorno della Memoria”. Ma un diaframma si interponeva tra te e la realtà storica e umana. Come se l’arte, rappresentando il male, in qualche modo lo banalizzasse. Come se il minimo piacere estetico potesse distrarti dalla realtà degli eventi o attenuarne l’atrocità piuttosto che rivelare qualità che la narrazione oggettiva dei fatti non riuscisse a rendere.
Ora stai per varcare il cancello d’ingresso del campo di Auschwitz, sul quale è una scritta in ferro battuto ”ARBEIT MACHT FREI” (Il lavoro rende liberi). Un’espressione cinica e beffarda. Come dire: il lavoro è umiliazione, sofferenza, non si addice a noi signori ed eroi, ma a voi nemici; la libertà che vi aspetta è la morte. Un rovesciamento paradossale del “Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate” sulla porta dell’Inferno di Dante. Sì, perché questo era (è) un viaggio attraverso i gironi infernali. Nell’entrare ed uscire da una baracca all’altra, nel vedere immagini e oggetti che raccontano storie di dolore ed orrore ti cali nella profonda voragine del Male. Il nostro Virgilio è Eva, una giovane ed eterea donna polacca. Ascoltiamo per la cuffia la sua voce flebile, accorata, dagli accenti dolenti, che talora sembra percorsa da un filo di vera emozione, come se nel parlare rinnovasse in sé e trasmettesse l’antico e ancora vivo dolore del suo popolo. Ora come si fa a tradurre sulla pagina sentimenti che vanno “oltre la soglia”, a dire l’indicibile, a dare corpo all’inimmaginabile? Il silenzio, quello che ci accompagna in tutto il percorso, forse è una possibile reazione, ma non un’alternativa alla parola.
Puoi dire solo ciò che scorre sotto i tuoi occhi.


Ad Auschwitz

Terreni con ceneri umane, 1500 diversi edifici: blocchi e baracche di prigionieri, edifici destinati all’amministrazione, torri di vedetta, reticoli di filo spinato attraversati da corrente elettrica, terreni con ceneri umane, la fossa comune con alcune centinaia di prigionieri, locali dove i medici delle S.S. facevano le selezioni, camere a gas, forni crematori, forche per l’impiccagione; il Muro della morte, appositamente imbottito per assorbire i proiettili, presso il quale i nazisti fucilarono migliaia di persone. Oggi, infilata in una fessura, non manca mai una rosa rossa, simbolo di rinascita della vita dal sangue degli innocenti. Il materiale esposto: barattoli con resti di Ceikon B e zolle di terra di diatomite da cui veniva ricavato il gas venefico, 80.000 scarpe, circa 38.000 valige, 12.000 posate, 40 kg.di occhiali, 460 protesi, 570 divise da prigioniero di campo a strisce verticali, 260 capi di abbigliamento civile, 260 scialli rituali ebraici, articoli personali: berretti, rasoi, vasetti di sapone, lucido per scarpe, pettini, gamelle; 2.000 oggetti artistici realizzati dai prigionieri nel campo; due tonnellate di capelli tagliati alle donne deportate al campo: trasformati in feltro e filati o, tagliati e pettinati, diventavano calzature per marinai; migliaia di documenti.

Le immagini

Prigionieri che scendono dai treni e si avviano alle selezioni; donne e bambini appena arrivati al campo. Molti di loro saranno immediatamente mandati alla camera a gas perché gracili, malati o inadatti al lavoro; una vecchia contadina, lasciata in attesa lungo i binari, ignara del tragico destino che l’aspetta; uomini e donne adatti al lavoro, dopo la rasatura dei capelli e la disinfestazione, che indossano le uniformi del campo; donne e bambini che aspettano tranquilli nel boschetto del campo di Birkenau. Alcuni sembrano fiduciosi, altri appaiono preoccupati. Verranno condotti al crematoio IV; una squadra di prigionieri che inizia la cernita dei bagagli dei deportati. Oggetti personali dei prigionieri: calzature e recipienti metallici, divisi, ammucchiati, passati alla disinfezione e immagazzinati. Migliaia di foto, soprattutto le foto dei bambini, soprattutto gli occhi dei bambini.
Il direttore del campo saluta così 728 prigionieri polacchi: ”Non siete venuti in un sanatorio, ma in un campo di concentramento tedesco. Da qui non c’è altra via d’uscita che il camino del crematorio. Se a qualcuno questo non piace, può andare subito contro il filo spinato. Vi metteremo tutti a cuocere nei forni. Creperete come cani. Non siete uomini, ma soltanto un mucchio di spazzatura”.


Birkenau

A Birkenau non c’è una esposizione di carattere museale. Il terreno del campo è stato lasciato intatto, con il Judenrampe, il binario morto della ferrovia sul quale dalla primavera del 1942 al maggio 1944 vennero effettuati i trasporti di ebrei, polacchi e rom deportati dal campo. Passi, per una strada fatta di terriccio erbacce fango lastre di ghiaccio che si vanno dissolvendo, per i locali successivi nello stesso ordine nel quale erano costretti ad attraversarli le vittime: la “Casetta rossa” (la prima camera a gas costruita nel marzo ’42 e cosiddetta per il colore del tetto); le baracche rimaste come erano: basse, sporche, di tavole sconnesse, con il pavimento di terra battuta; non ci sono cuccette ma tavolacci di legno nudo fino al soffitto, di m. 1,80 x 2, su ognuno dei quali dormivano fino a nove donne; il dormitorio dei bambini polacchi e ungheresi: in numero di 300, 10 per cuccetta, sulla parete del corridoio d’ingresso è dipinta la gioiosa scena di tre ragazzi, uno su un cavalluccio di legno, uno che suona un tamburo, un’altra che abbraccia una bambola, che vanno a scuola: il sogno di una vita normale; bugigattoli che facevano da camere di punizione; le latrine, cui si poteva accedere solo per pochi minuti prima e dopo la giornata di 11 ore di lavoro; gli stretti e lunghi condotti che facevano da lavatoi. Sul terreno carriole per l’asportazione delle ceneri dei corpi bruciati, da gettare in uno stagno o vendere ai contadini come fertilizzante.
Si prova una “angoscia violenta”.


Un sole freddo

Dopo la neve e il gelo del giorno di Pasqua, oggi l’aria è tersa e nel cielo splende un timido solicello; ma è un sole che non riscalda. Il freddo sta tutto dentro. Non può essere toccato dal calore dei raggi.

Wislawa Szymborska e Primo Levi

Entrare nei campi di Auschwitz e Birkenau è un’esperienza “liturgica”: è un contatto non mediato con fantasmi del passato che diventano corpi, voci che toccano i tuoi sensi, sollecitano i tuoi sentimenti, ma richiedono anche un esercizio di intelligenza, una tua riflessione, per passare dalla commozione alla comprensione.
Alla fine possiamo ripensare solo ai versi della poetessa di Cracovia, premio Nobel per la letteratura, da poco deceduta:
“Scuoto la mia memoria / Forse tra i suoi rami qualcosa / addormentato da anni / si leverà come un frullo”. E all’ammonimento di Primo Levi: “Meditate che questo è stato”.


Primo Levi: Se questo è un uomo 

Noi che viviamo sicuri
nelle nostre tiepide case
noi che troviamo tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:
consideriamo se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un sì o per un no.
Consideriamo se questa è una donna
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare

vuoti gli occhi e freddo il grembo

come una rana d'inverno.

Meditiamo che questo è stato:

comandiamoci queste parole.
Scolpiamole nei nostri cuori
stando in casa andando per via
coricandoci alzandoci:
ripetiamole ai nostri figli.
O ci si sfaccia la casa
la malattia ci impedisca
i nostri nati torcano il viso da noi
.





Sam Pivnik: L’ultimo sopravvissuto

Eravamo in viaggio da circa un’ora quando sentimmo il locomotore rallentare e sobbalzare su un binario di servizio. Rannicchiandomi nella calca e sbirciando tra le spalle delle persone ammassate davanti a me, riuscii a scorgere delle file di pali verticali di cemento e cavi di filo spinato intrecciati e stesi tra i pilastri. Più in là file di baracche. Un acuto stridore dei freni e poi i portelloni dei nostri vagoni vennero spalancati. Una voce gridava ordini da un altoparlante; guardie con la divisa delle SS ci spingevano e minacciavano con le pistole; grossi cani con la catena al collo, le zanne scoperte, ringhiavano rabbiosamente. Era difficile dire chi sembrasse più feroce, se i cani o i loro padroni. Ma furono altri uomini a catturare la mia attenzione: indossavano divise da detenuti, con strisce verticali blu e bianco, che sembravano pigiami. Anche loro gridavano e ci insultavano. Ci ordinarono di abbandonare i nostri bagagli e di metterci in fila. Un soldato delle SS continuava a urlare istruzioni perché le famiglie rimanessero unite.
Alla fine si erano formati due gruppi. La mia colonna era piena di famiglie, di anziani con volti pallidi, di bambini con le guance rigate dalle lacrime, di genitori che tremavano al sole, il terrore disegnato sul viso. Nell’altro gruppo c’erano solo maschi, dai tredici ai cinquant’anni circa; alcuni di loro guardavano verso di noi, ansiosi e preoccupati. La fila degli uomini si avviò. Io sentii la voce di mia madre. Mi sussurrava all’orecchio: “Szamlek, salvati”; poi mi diede una spinta decisa in direzione della colonna dei maschi. La guardai senza sapere cosa rispondere. Posai lo sguardo per l’ultima volta su di lei, papà, i miei fratelli più piccoli: Majer, Chana, Wolf e Josek. La mia famiglia, il mio stesso sangue. Sconvolto, incapace di capire cosa stesse accadendo, mi unii alla colonna in movimento.
Un ufficiale osservava ognuno di noi, dalla testa ai piedi, facendo schioccare con un gesto secco i guanti a destra o a sinistra. Non l’ho mai sentito parlare, ma il movimento dei guanti era un ordine di per sé. Gli uomini smistati a sinistra venivano rispediti indietro per raggiungere le donne, i bambini, le famiglie e gli anziani. Speravo che l’ufficiale indicasse a sinistra col guanto, così sarei potuto tornare dalla mia famiglia e abbracciarli di nuovo. Ma indicò la destra. Non mi chiese l’età, né che esperienza di lavoro avessi o da dove venissi. Non sapevo che non mi rivolgeva la parola perché lui era un ariano, un esponente della razza padrona, e io solo un ebreo, Untermensch, un subumano.
Adesso, in quella torrida giornata di agosto eravamo in piedi, ansimanti e senza più fiato, di fronte a degli squallidi capannoni.
Oltre la porta principale c’era un'enorme stanza vuota che veniva usata come magazzino. Gli uomini con le divise a strisce ci dissero di spogliarci e ci diedero dei pezzi di spago per legare i nostri stivali o scarpe. In quel momento divenne ovvio ai miei occhi che quelli non erano soldati delle SS ma una specie di detenuti selezionati, che facevano osservare le disposizioni del campo. E molti di loro avevano l’aria di divertirsi un mondo nel vederci umiliati e spaventati. Svuotarono le tasche delle nostre giacche e dei pantaloni, ci portarono via le monete, le sigarette e gli anelli, gettarono i nostri libri di preghiera sul pavimento. Quando fummo completamente nudi, ci diedero un pezzo di sapone duro e ci portarono nella stanza adiacente delle docce. Un getto d’acqua gelida mi tolse il fiato. L’acqua aveva appena cominciato a riscaldarsi quando le docce vennero chiuse con un fragore metallico nei tubi. Adesso altri uomini tenevano in mano delle cesoie, come quelle della tosatura delle pecore. Iniziarono a usarle sulle nostre teste. Ho ancora nelle orecchie il sibilo di quegli aggeggi, e ricordo con precisione la sofferenza di quel trattamento. Ci facevano sedere sul duro pavimento di legno e con movimenti rapidi lasciavano strisciare quelle macchinette sulle nostre teste, come se stessero falciando un prato. I denti vibranti ci strappavano i capelli lasciando sulla pelle tagli profondi e fastidiosi. Fecero scorrere i loro rasoi sotto le ascelle e sui testicoli. Chi si azzardava a gridare o a lamentarsi si beccava un potente colpo di bastone. Quando la procedura fu conclusa mi guardai intorno. Ci avevano strappato l’identità. Senza vestiti, senza oggetti personali, senza più capelli, pieni di tagli e cicatrici su tutto il corpo, adesso sembravamo tutti uguali; adesso eravamo soltanto anonimi membri della categoria degli Untermenschen.
Si aprì un’altra porta. Nella stanza successiva uno degli sgherri mi afferrò il mento e mi spalancò le mascelle per ispezionarmi la bocca. Stava cercando oggetti di valore. Poi venni spinto in avanti e qualcuno mi divaricò le gambe. Non ho mai sentito un dolore come quello, raddoppiato poi quando un altro mi fece piegare e mi inserì una specie di pinza nel sedere. Niente gioielli nemmeno lì. Sconvolto e sanguinante mi rialzai e ripresi posto nella fila fino a quando non fu il mio turno per andare alla scrivania. Un uomo mi chiese il nome. Risposi che mi chiamavo Szamlek Pivnik. Mi domandò la data di nascita: 1 settembre 1926. Mi domandò dove fossi nato e io glielo dissi: Bedzin. Stavo ancora rispondendo alle loro domande quando sentii un dolore improvviso all’avambraccio sinistro. Uno degli sgherri aveva scritto un numero con l’inchiostro nero e adesso lo stava incidendo sulla pelle con un grosso ago: istintivamente ritirai il braccio, ma lui me lo premette contro il tavolo e mi ordinò di non fare “nessun cazzo di movimento”. Doveva tatuare il mio numero. Rimasi immobile. L’uomo mi squadrò il viso, leggendoci il dolore, la paura, lo smarrimento. Mi chiese con chi fossi arrivato, con i miei genitori per caso? Aprii la bocca per rispondere ma non riuscivo a emettere suono. Lui annui, mi disse che non dovevo preoccuparmi per loro. Finì di tatuare le cifre e concluse: “Forse a quest’ora sono già in cielo”.
Quando ebbe finito con me, superai arrancando un'altra porta, devastato dallo shock per le parole che avevo appena udito: poi guardai i numeri sul mio braccio, ancora scintillanti di sangue: 135913. Ero diventato un capo bestiame, marchiato come una mucca diretta al macello. 



Rosamunda

Rosamunda Rosamunda
che magnifica serata
sembra quasi preparata
da una fata delicata
Mille luci mille voci
mille cuori strafelici
sono tutti in allegria oh che felicità  

Rosamunda Rosamunda
questa polka indiavolata
ogni coppia innamorata
fa danzare fa cantare
Se una scossa ti sconquassa
bella mia non farti rossa 

da me lasciati baciare e non mi dir di no



Rosamunda se mi baci tu
Rosamunda non resisto più
Tutte le coppie fo inciampar
Più non mi trovo a saltellar
Rosamunda tu mi fai gioir
Rosamunda tu mi fai stordir
Sotto le stelle a cuore a cuor
È tanto bello il nostro amor  

Rosamunda
tu sei la vita per me
Rosamunda
tutto il mio cuore è per te
Nei tuoi baci
c'è tanta felicità
Più ti guardo e più mi piaci
Rosamuuunda

Rosamunda
tu sei la vita per me
Rosamunda
tutto il mio cuore è per te
Nei tuoi baci
c'è tanta felicità
Più ti guardo e più mi piaci
Rosamuuunda


 


La stanza successiva era un altro deposito di vestiti. Mi gettarono un fagotto di abiti da indossare: una maglia, una giacca, dei calzoni, un cappello. Non c’era biancheria e gli zoccoli di legno erano di misura troppo grande per me. Non c’era nulla che mi andasse bene e la stoffa era ruvida, grezza e puzzava da fare schifo. Non c’era cintura per i pantaloni, perché avremmo potuto usarla per impiccarci, quindi per fare anche solo un passo dovevo tenermi i pantaloni con una o due mani. Era già buio pesto quando le procedure di “accoglienza” terminarono. Adesso c’erano circa duecento di noi, allineati, in fila di cinque elementi, in marcia verso il campo vero e proprio. Avanzammo a fatica per circa trecento metri fino a un cancello sorvegliato da soldati. Era spalancato e lo imboccammo con gli zoccoli che ciabattavano su un sentiero dissestato e sassoso. Ancora duecento metri e raggiungemmo un altro cancello. Era aperto anche questo. Ci fecero passare di fronte a una lunga fila di baracche che avevano l’aspetto di stalle, per poi farci fermare all’esterno di una di queste. Sulla porta era dipinto con chiarezza il numero 10. Uno degli sgherri salì sul gradino di fronte a noi. Al braccio portava una fascia gialla con su stampate in inchiostro nero le parole Kapò. Ci chiamava fottuta feccia giudea e ci disse che non voleva sentire nemmeno una parola. Ci dovevamo disporre nelle cuccette, cinque persone per ogni cuccetta: sarebbe stato sufficiente per tenerci al caldo. Avremmo ricevuto cibo e coperte il mattino dopo. Poi ci ordinò ancora una volta di fare silenzio e concluse: “Se ci create un solo problema siete morti. All’istante”.
Nessuno disse una parola. Entrammo nella baracca oscura. Mi dovetti incastrare nella cuccetta assieme ad altri quattro uomini, dei perfetti estranei. Nessuno si spogliò, nessuno si tolse gli zoccoli. Le braccia, l’inguine e la testa mi facevano male per il trattamento ricevuto qualche ora prima; lo stomaco brontolava, contratto dai crampi: non mangiavo da tre giorni e avevo bevuto solo qualche sorso zuccherato del mio stesso piscio. Le cuccette erano polverose e sgangherate, ad ogni movimento il legno scricchiolava e gemeva sul pavimento irregolare. Avevo voglia di piangere fino a quando non fosse sopraggiunto il sonno, ma avevo troppa paura perfino per le lacrime. Rimasi disteso al buio ad ascoltare il respiro degli altri e il loro russare, senza riuscire a smettere di tremare. All’improvviso sentii uno sfregamento ritmato dietro di me. Ruotai appena la testa e vidi uno sguardo malizioso e uno sguardo lascivo nel buio. Era un uomo sulla quarantina. Stava approfittando di quell’incredibile notte per abusare di me. Non riuscivo a credere che qualcuno dopo tutto quello che avevamo subito quel giorno, potesse solo pensare ad una cosa simile. Non osai gridare per paura del bastone del kapò e delle pallottole delle SS.
Chiusi gli occhi e per tutta la notte mi rimbombarono nel cervello le parole dello sgherro che mi aveva fatto il tatuaggio: “La tua tua famiglia… forse a quest’ora sono già in cielo”.


Stewart J. Florsheim: Cioccolata vera 



Mi attirarono fuori dalla baracca
con promesse di cioccolata
e parole come ”Schätzchen”,
ma le altre donne sapevano,
e, ancor prima di udire i rumori là fuori,
mi chiamarono puttana dei soldati.
Anch’io sapevo,
ma la fame ha un modo tutto suo di cambiarti,
e di farti scordar chi sei.
Buffo, come vi possa essere speranza nella disperazione.
Gettarono la cioccolata per terra
e risero: ”Da friß.” La desideravo da impazzire,
ma il sapore fu di fango. ”Dreh dich rum, Judenschwein.”
Vidi enormi stivali neri, paia e paia,
e il terreno così fangoso
da far sprofondare il mio corpo.
Tirai su il mio abito da prigioniera ed allargai le gambe.
Erano così leggere e s’aprirono così facilmente
che ringraziai Dio, sapevo
che non avrei resistito.
Questo corpo non è più mio, questa fame;
finalmente, non c’è più motivo di lottare.
Mi chiedo ora se il loro desiderio di me
fosse una brama di morte:
fottere una donna calva ch’era soltanto pelle e ossa,
la cui unica salvezza era una tazza di zuppa acquosa
per cena, una fetta di pane raffermo,
e forse, se i soldati l’avessero di nuovo voluta,
questa volta, un pezzo di cioccolata vera
.





Liana Millu: Il fumo di Birkenau

Eppure, ci volevamo bene. Come può accadere che due creature vissute insieme, una per l’altra, si trovino a un tratto più lontane di due estranei, di due nemici?
Fummo prese insieme in un rastrellamento, io e mia sorella Gustine, senza poter rivedere nessuno, e in quel camion pieno di gente spaurita, sconvolta, disfatta, tutto quello che avevamo al mondo si riassumeva nell’altra. Per tutto il tempo del viaggio, per tutto il tempo della quarantena a Birkenau non ci siamo mai lasciate un secondo, tanto era il terrore di rimanere separate.
Gustine parlava per ore filate della nostra casa, descriveva il fuoco che scintilla nella grande stufa di maiolica azzurra; la mamma che prepara le tartine per il tè; quell’odore di pane fresco che è tra i più soavi della terra; e il burro, la marmellata color rubino del ribes, le tendine chiare alle finestre. Lei accanto alla radio, io a studiare latino. Oh casa, casa, dolcissima casa; la più dolce tra le dolci cose terrene.
Si andò insieme a lavorare in quel cattivo “Comando” dei canali; tutto il giorno con le gambe nell’acqua e nella melma, si scavavano i fossati vicini ai crematori per gettarci il soprappiù delle ceneri e, oltre la fatica, sentivamo tutto il giorno l’odore di quel fumo. Lo vedevamo quel fumo, così nero, pesante, che faticava a dissolversi per sempre nel nulla; e tu lo guardi ogni volta che alzi la testa dalla zappa, e pensi: “Tra una settimana, tra un mese, tocca a me”. E mi sembrava già di uscire dalla torretta sopra i tetti del lager, e sentirmi svanire a poco a poco, fino a che non rimanesse traccia del mio passaggio sulla terra.
Mi ricordavo le prediche del pastore, una volta che commentava la Bibbia; mi pare sia il libro di Giobbe, quando anche Giobbe non ne poté più e si mise a gridare di ribellione al pensiero che “come si dissipa la nube e si dilegua, così chi scende agli inferi non risale, non vedrà più la sua casa”. Non volevo dissiparmi come la nube che si dilegua, volevo rivedere la mia casa. Ho diciotto anni, non voglio morire. Nessuno vuole morire. Ma io non lo volevo più degli altri, ecco. Non volevo perché sentivo più degli altri l’orrore di questa ingiustizia, io dovevo morire perché non potevo rubare la zuppa, perché non avevo sigarette da dare in cambio col pane, e quelle che valevano meno di me, che avevano compiuto delitti o fatto cattiva vita, sarebbero vissute. Loro sarebbero rimaste sulla terra, avrebbero amato, cantato, rivisto le case e le persone care, e io? Cosa sarei diventata io? Un nastro nero sui vestiti dei miei parenti, una esclamazione pietosa: “Quella povera Lotti! Che disgrazia essere morta così giovane!”. E intanto c’è la luce per le strade, le nuove canzoni, i fiori, e io non posso avere più nulla perché sono morta a Birkenau. Ma dovevo accettare tutto questo? Dovevo rinunciare alla vita, così, semplicemente? Nel lager si va a raccogliere i rifiuti nel letamaio, si succhiano gli ossi sputati dagli altri, e io dovevo rifiutare la vita perché mi veniva offerta in un piatto sporco? Tutte queste cose le dicevo a mia sorella Gustine. Ma lei non se ne rendeva conto, lei pativa così, come patiscono quasi tutte le creature, soffrendo volta per volta, per le cose di tutti i giorni, ma il senso grande della tragedia le sfuggiva e così non mi capiva e si irritava a sentirmi parlare della morte. Lei sperava sempre in un miracolo, attendeva sempre la fine della guerra tra quindici giorni, l’aspetterà fino al suo ultimo respiro, e quando chiuderà gli occhi soffrirà meno di quello che ho sofferto io al “Comando” dei canali, perché non crederà di morire o, anche se se ne accorgerà, penserà che è volontà di Dio.
Me lo nominava sempre questo Dio, Gustine, tanto che finii per averne l’ossessione. “Dio non abbandona le sue creature. Dio sa quello che fa. Dio non può permettere che l’ingiustizia trionfi” e intanto il crematorio seguitava a fumare, e granelli di cenere mi ricadevano in testa.
“Ecco il tuo Dio!” dicevo a Gustine. E lei chinava la testa senza rispondermi e vedevo che mi odiava.
Una volta avevamo una Capo così cattiva, una di quelle col triangolo nero sulla camicia, eppure riusciva ad avere tutto quello che voleva. Grassa, robusta, e vestita così bene che forse a casa sua non l’avrebbe nemmeno sognato. Io la guardavo e pensavo: quando sarò in fumo lei continuerà a vivere. Arriverà alla fine della guerra e tornerà a casa, soddisfatta, felice. E a questo non ci pensava, Dio?
Ma cosa avevo fatto io per essere condannata così? Cosa aveva fatto Gustine? E intanto avevamo cominciato a non poterci parlare quasi più. Come se le parole potessero finire di rompere quel legame che andava consumandosi un po’ per giorno, come una candela. Si lavorava ancora vicine, ma senza parlare; ognuna isolata nelle sue idee, come chiusa dentro un bozzolo.
Si dà tanta importanza allo stesso sangue! Ma cosa vale essere fratelli, sorelle, o chi ti pare, quando tu capisci le cose in un modo e lei in un altro, e la differenza delle vostre idee crea tra voi una barriera e vi fa più estranei dello sconosciuto che incroci per strada? Io e Gustine avevamo lo stesso sangue, avevamo avuto la stessa infanzia, e ora tutto era finito perché io avevo paura di morire, mentre lei credeva che Dio l’avrebbe salvata.
Il giorno prima che ci fosse la richiesta per il Puff si ebbe una questione e da allora non ci si scambiò più parola. Si dormiva vicine e tutta la notte la sentivo tossire. Mi faceva pietà, pietà da piangere, ma non potevo dirle niente, e lei sapeva che io soffrivo, ma non faceva un movimento per avvicinarsi.
Per fatalità, la mattina dopo, la blockowa chiese se qualcuna voleva andare al Puffkommando di Auschwitz; chi voleva si presentasse a lei prima dell’appello. E io mi decisi, aspettai che Gustine fosse un po’ lontana, entrai nella stanza della blockowa. Era una piccola, bruna, che gridava sempre. Appena lei mi vide entrare capì il motivo. Mi guarda e dice: “Ah! Ah! Tu vuoi andare al Puff, eh? Vuoi godertela, ingozzarti bene, eh? Quanti anni hai?”. “Diciassette” rispondo. E lei mi guarda da capo a piedi, dice che sono un po’ magra. “Non dite a nessuno che sono venuta, mi raccomando” e la blockowa promette e mi manda via. Due giorni dopo, quando stavo per marciare col “Comando”, lei mi richiama e mi fa mettere da parte. “Perché mia sorella non viene a lavorare?” chiese Gustine. “Perché va a fare la puttana” risponde la blockowa, e tutte si mettono a guardarmi.
Gustine mi viene davanti, bianca come una morta, con le mani che tremano. “È vero?”. “Sì” accenno io. E allora lei si scosta, e dice: “Charlotte, ormai tu sei morta, ormai tu sei morta”.
Ora io vivo nel Puff di Auschwitz, in una stanza con un grande letto e un grande specchio, indosso una vestaglia di seta rossa, odoro di pulito e di cipria. Mia sorella, ho saputo, giace ammalata in una cuccetta di una baracca dell’infermeria di Birkenau. Ogni tanto le mando qualcosa per qualche detenuta: decine di sigarette, da poter scambiare per comprare qualcosa da mangiare. Una sola vale una zuppa di latte o una mezza razione di pane o una gamella di gialle patate calde. Ma lei non vuole la mia roba. Non vuole niente da me. Butta tutto a terra. Pensa che è roba maledetta e una ragazza per bene si sporcherebbe a toccarla. Dice che non posso essere io ad avergliela mandata: ”Lotte è morta. È morta”.
Guardo il cielo. Un po’ di fumo viene dalla parte di Birkenau, e il vento lo porta su Auschwitz. Forse tra poco Gustine stessa passerà lentamente su questa casa. Tutto non è che fumo. Fumo sopra i lager, la cittadina e il bordello; fumo sopra la malvagità e l’innocenza, la saggezza e le follie, la morte e la vita. Niente altro che fumo.

Lili Marleen 



Tutte le sere sotto quel fanal
presso la caserma ti stavo ad aspettar
Anche stasera aspetterò
e tutto il mondo scorderò
con te Lili Marleen

con te Lili Marleen

O trombettier stasera non suonar
una volta ancora la voglio salutar
Addio piccina dolce amor
ti porterò per sempre in cuor
con me Lili Marleen
con me Lili Marleen

Prendi una rosa da tener sul cuor
legala col filo dei tuoi capelli d'or
Forse domani piangerai
ma dopo tu sorriderai
a chi Lili Marleen

a chi Lili Marleen

Quando nel fango debbo camminar
sotto il mio bottino mi sento vacillar
Che cosa mai sarà di me
Ma poi sorrido e penso a te
a te Lili Marleen

a te Lili Marleen

Se chiudo gli occhi il viso tuo m'appar
come quella sera nel cerchio del fanal
Tutte le notti sogno allor
di ritornar di riposar
con te Lili Marleen

con te Lili Marleen






Autore ignoto, KL Birkenau: Ceneri



Un giorno torneremo a casa

o forse no,
chi lo sa?

Un giorno penseremo

che tutto è stato un sogno orrendo, tutto 

quel che è accaduto laggiù, in quella Auschwitz

dove il camino sputa fumo
di continuo… di continuo.
Vedi la colonna di fumo

e l’enorme bagliore?

”C’è un fuoco?”, domandi.
Ma non lo sai?

Stanno bruciando

migliaia, milioni di corpi umani!
Gente arrivata qui in grossi gruppi,

apparentemente ad un porto sicuro
dopo un viaggio lungo e stancante,

qui dove c’è acqua per dissetarsi

e per lavarsi.

Ma c’è anche il gas…

“Gas?”, domandi.
Ma non lo sai?
È il gas che soffoca, asfissia,
strangola.
La gente non può dire parola

del dolore che prova.

Viene subito ridotta al silenzio

e in un attimo

solo una colonna di fumo mostrerà

che qui è stata,

che qui è vissuta

e perita, lasciando soltanto

…CENERI!…





Elie Wiesel: La notte 

Tutto è possibile, anche i forni crematori

… un sudore freddo mi copriva la fronte, ma gli dissi che non credevo che si bruciassero degli uomini nella nostra epoca, che l’umanità non l’avrebbe più tollerato… 

– L’umanità? L’umanità non si interessa a noi. Oggi tutto è permesso, tutto è possibile, anche i forni crematori… – La voce gli si strozzava in gola. 

Papà, – gli dissi – se è così non voglio più aspettare. Mi butterò sui reticolati elettrici: meglio questo che agonizzare per ore tra le fiamme. 

Lui non mi rispose. Piangeva. Il suo corpo era scosso da un tremito. Intorno a noi tutti piangevano. Qualcuno si mise a recitare il Kaddìsh, la preghiera dei morti. Non so se è già successo nella lunga storia del popolo ebraico che uomini recitino la preghiera dei morti per sé stessi.

–
 Yitgaddàl veyitkaddàsh shemè rabbà… Che il Suo Nome sia magnificato e santificato… – mormorava mio padre. 

Per la prima volta sentii la rivolta crescere in me. Perché dovevo santificare il Suo Nome? L’eterno, il Signore dell’Universo, l’Eterno Onnipotente taceva: di cosa dovevo ringraziarLo? 
Continuammo a marciare. Ci avvicinavamo a poco a poco alla fossa da cui proveniva un calore infernale. Ancora venti passi. Se volevo darmi la morte, questo era il momento. La nostra colonna non aveva da fare che una quindicina di passi. Io mi mordevo le labbra perché mio padre non sentisse il tremito delle mie mascelle. Ancora dieci passi. Otto. Sette. Marciavamo lentamente, come dietro ad un carro funebre, seguendo il nostro funerale. Solo quattro passi. Tre. Ora era là, vicinissima la fossa e le sue fiamme. Io raccoglievo tutte le mie forze residue per poter saltare fuori dalla fila e gettarmi sui reticolati. In fondo al mio cuore davo l’addio a mio padre, all’universo intero e, mio malgrado, delle parole si formavano e si presentavano sulle mie labbra: Yitgaddàl veyitkaddàsh shemè rabbà… Che il Suo Nome sia elevato e santificato… Il mio cuore stava per scoppiare. Ecco: mi trovavo di fronte all’Angelo della morte…

No. A due passi dalla fossa ci ordinarono di girare a sinistra, e ci fecero entrare in una baracca.


Mai dimenticherò quella notte

Mai dimenticherò quella notte, la prima notte nel campo, che ha fatto della mia vita una lunga notte e per sette volte sprangata. 
Mai dimenticherò quel fumo. 
Mai dimenticherò i piccoli volti dei bambini di cui avevo visto i corpi trasformarsi in volute di fumo sotto un cielo muto. 
Mai dimenticherò quelle fiamme che bruciarono per sempre la mia Fede. 
Mai dimenticherò quel silenzio notturno che mi ha tolto per l’eternità il desiderio di vivere. 
Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima, e i miei sogni, che presero il volto del deserto. 
Mai dimenticherò tutto ciò, anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso. Mai.   

Dio non esiste

– Sia il Nome dell’Eterno! – Ma perché benedirLo? Tutte le mie fibre si rivoltavano. Per aver fatto bruciare migliaia di bambini nelle fosse? Per aver fatto funzionare sei crematori giorno e notte, anche nei giorni di festa? Per aver creato nella sua grande potenza Auschwitz, Birkenau, Buna e tante altre fabbriche di morte? Come avrei potuto dirGli: “Benedetto Tu sia Signore. Re dell'Universo, che ci hai eletto fra i popoli per veder torturati giorno e notte, per vedere i nostri padri, le nostre madri, i nostri fratelli finire al crematorio? Sia lodato il Tuo Santo Nome, Tu che ci hai scelto per essere sgozzati sul Tuo altare? 
Io non digiunai. Prima per far piacere a mio padre, che mi aveva proibito di farlo, e poi perché non c’era più nessuna ragione perché digiunassi. Non accettavo più il silenzio di Dio. Inghiottendo la mia gamella di zuppa vedevo in quel gesto un atto di rivolta e di protesta contro di Lui. 
E sgranocchiavo il mio pezzo di pane. In fondo al cuore sentivo che si era fatto un grande vuoto. 

Uno sguardo maledetto   

Il nostro primo gesto di uomini liberi fu quello di gettarci sulle vettovaglie. Non pensavamo che a quello, né alla vendetta, né ai parenti: solo al pane. 
E anche quando non avemmo più fame non ci fu nessuno che pensò alla vendetta. Il giorno dopo, qualche giovanotto corse a Weimar a raccogliere patate e vestiti, e qualche ragazza, ma di vendetta nessuna traccia. 
Tre giorni dopo la liberazione di Buchenwald io caddi gravemente ammalato: un’intossicazione. Fui trasferito all’ospedale e passai due settimane fra la vita e la morte.
Un giorno riuscii ad alzarmi, dopo aver raccolto tutte le mie forze. Volevo vedermi nello specchio che era appeso al muro di fronte: non mi ero più visto dal ghetto. 
Dal fondo dello specchio un cadavere mi contemplava. 
Il suo sguardo nei miei occhi non mi lascia più.