'O compagno*

 

  

 

Cammina cammina… si stancava. Lo aggrediva un’indomita indolenza. Allora, si fermava. Così, all’improvviso, sul ciglio della strada, appollaiato sul taglio d’un marciapiede, le braccia strette intorno alle ginocchia. Sentiva la testa pesantemente attratta dalle rotule. Incurvava la spina dorsale, anello dopo anello, vi lasciava precipitare la fronte. Precipitavano piccoli globi disposti lungo la schiena, si districavano consecutivamente imprimendo, nella dilagante stanchezza, più forza al precipitare della testa – il globo maggiore, il loro sole – sganciata e spinta nell’accogliente urto finale, dove gli arti superiori incorniciavano un vuoto che pareva stringere l’ultimo, teso, baluginare di pensiero. Vagava accompagnando il corpo diventato sferico.
Le corrispondenze inerziali sollecitavano il baricentro avvicinato al magnetismo terrestre: oscillazioni be bop planavano nell’immoto silenzio. Un sospirato calore avvolgeva le algide mani; l’una nell’altra strette, diventate impercettibili separatamente, fondevano diramando una fluida sensazione. Risaliva dalle estremità, poc’anzi raggiunte, curvando la testa verso il basso, al corpo intero pervaso da una monolitica, pietrificata, condizione. Vsevolod era fuso, un meteorite caduto nelle sue ostinate convinzioni. Candido vuoto pervadeva l’agognato vagabondare. L’attimo aveva perso consapevolezza, il piacere lo rendeva attonito.
La sosta sarebbe rimasta indescrivibile. Una volta abbandonata, l’occhio, come quello d’un osservatore esterno, avrebbe percepito un passaggio nel nulla. Indietro restavano scarpe polverose, pantaloni col bordo spiegazzato sollevato sulle scarpe, un’ampia giacca che sfiorava le calze. Lo sguardo trasognato lasciava presupporre le più strane congetture, sembrava avesse sposato le orbite terrestri recuperato a nuove, gioiose, energie.
Generalmente, lo destava un intervento obliquo al suo sentire: un forte odore, una variazione di temperatura, un insetto planato a banchettare sulla pelle scoperta… l’abbaiare d’un cane. L’abbaiare d’un cane lo destò. Sollevato il busto, penetrò la luce con la sua oscurità transitoria, soffici respiri allungarono le braccia al cielo; si stiracchio, stropicciò gli occhi, riprese la posizione eretta, per un momento provò nostalgia d’un ritorno. Pensò a Guagliò, l’amico mastino napoletano, gli sarebbe piaciuto osservare un suo risveglio. Invece, più in là scodinzolava un meticcio randagio. Aveva scorto Vsevolod, aveva disposto il fianco ad ellisse, aveva girato la testa nel punto opposto alla coda, cosicché ricordava, col suo mantello pezzato e la bassa statura, un tappeto volante. Promettendo vicina la prossima alba, contendeva il richiamo ad un gallo lontano.
L’atmosfera diventava magica. Esattamente nel punto dove il cane volgeva il tartufo iniziò a sollevarsi, alta nell’orizzonte, una lama color salmone. Una minuta, parziale, aureola scintillava sulla sopita bocca del vulcano. Il cratere appena s’intravedeva oltre la montagna antistante, sommersa dal buio. Vsevolod avvertì una scossa elettrica. Una forza smisurata gli attraversò le vene, accelerava il battito del cuore; il sangue scorreva a fiotti, ne percepiva il percorso nel petto: aggiungeva fluido a fluido, non trovava più superficie adeguata, si concentrava negli occhi e più in là trasfondeva un’indescrivibile felicità. Era fuori di sé. Il tempo era maturo, poteva dare un salto. Lo diede… una molla! Balzò verso il cielo, allungò braccia e gambe, ricadde. Tornò ripetutamente in alto, quasi avesse voluto sfiorare il cielo. Cadendo non lesinava ritardare l’atterraggio senza aver prima sforbiciato i piedi o mosso le cosce in un curioso andirivieni. A tambur battente scaricò l’enorme potenza accumulata, baciò gli atomi circostanti, sollecitò una repentina illuminazione. Gli sembrò aver colto l’estasi quando dietro l’angolo sbucò una luce fioca, raccolta in un fascio netto, preciso. La osservava venire avanti mentre il cane, trottando, saliva nel chiarore. I passi spediti presto incrociarono una ruota… un’altra, tracciarono brevi cerchi intorno al loro avanzare, le circondarono. Il cane riprese ad abbaiare. La tenue nebbia accorciò il suo fascio, diffuse un chiarore irregolare. Dietro il chiarore Vsevolod distinse, a cavalcioni su una bicicletta, un uomo col cappello in tuta da lavoro. Meglio poté osservarne i contorni lindi, quasi fosse stata indossata per la prima volta, aveva ancora la riga ai pantaloni. Una tuta blu, una tuta da operaio. Il cappello, invece, vecchio e sdrucito, recuperato al molo in una domenica bestiale, sembrava fosse stato calato sulle grandi finestre degli occhi per difendersi, all’ultimo momento, dall’incipiente umidità. Una stanca coppola da pescatore faceva ancora il suo dovere.
Pupille fisse nelle pupille, i due viaggiatori trattennero brevemente il respiro all’incrocio delle loro strade. S’incontravano, nessuno dei due poteva ritirarsi. Avevano un’espressione sbalordita. A veder lievitare la reciproca sorpresa si sarebbe detto che entrambi fossero stati colti sul fatto. Quale fatto? Poco importava. Sicuramente l’avevano combinata grossa, tranne il cane ovviamente. Il cane li trasse dall’impaccio. Zampettava simpaticamente nel breve spazio proteso tra l’uno e l’altro, cambiava improvvisamente rotta, scodinzolava. In un primo momento, l’inconsueto invito a presentarsi non lenì l’imbarazzo, anzi, l’atmosfera festosa l’accrebbe finché, raggiunto un punto critico, insieme proferirono un: ”Salve”. Aveva un sapore liquido, spumeggiante: champagne appena stappato… dopo lungo sballottamento a cui sarebbe seguito un veloce rinsavire nel disporre la bottiglia immobile, verticale, per evitarne lo spreco invocato da astanti boccali.
L’ora alta della notte era prossima a lambire il giorno, la sorte prestava un’occasione ghiotta. Capita l’entrata fin troppo espansiva gli avventori, curiosi e difesi, cercarono un contatto pacato. In fondo, i bruni occhi a mandorla di Vsevolod tagliati su una mascella prominente, il naso lievemente adunco proiettato su una bocca larga; il volto tarchiato, paffuto, gli occhi neri e il naso schiacciato del suo vicino, ricordavano due maschere antiche. Erano cadute dalla notte dei tempi nella notte umida. Entrambe derivavano da un’umanità primordiale e la lasciavano derivare. Sprizzava da tutti i pori, incontrandosi su rotte impercettibili, inconsuete. Un dialogo, per quanto improvviso, doveva germogliare, era strada obbligata.
A rompere definitivamente il ghiaccio – lo champagne rischiava di raffreddarsi troppo – fu l’uomo in tuta blu. Rinsaldò il piede a terra, cercò un equilibrio stabile; portò la mano destra al taschino sinistro, la mano sinistra tenuta ben ferma sul manubrio; tirò fuori un pacchetto di sigarette, lo batté cautamente nell’aria, tre sigarette si affacciarono da un foro praticato in superficie; allungò il pacchetto verso Vsevolod invitandolo a gradirne una. Vsevolod rifiutò, gentilmente, con un cenno laterale della testa e una stretta di labbra. L’altro capì che il suo vicino non era avvezzo a fumare. Ritrasse il pacchetto; lo portò direttamente alla bocca, afferrò una sigaretta con i denti; ripose il pacchetto nel taschino; tirò fuori un accendino, accese la sigaretta. La stringeva tra l’indice e il medio allungati, con le altre dita spingeva l’accendino sul bordo della mano che ancora riportò al taschino lasciandovi cadere il lanciafiamme. Aspirò avidamente una boccata, espulse il fumo, allungò le labbra come a volerlo seguire, batté la lingua sul palato in segno di contenuto piacere, accigliò, dichiarò a Vsevolod le sue intenzioni.
Mentre parlava il suo sguardo sembrava rivolto all’interno del corpo, voleva guardare le parole prima di estrarle dalla spigolosa valutazione mentale? Gli piaceva viaggiare in bicicletta, l’umida notte lo accoglieva. Soprattutto, ritornava sui luoghi del delitto. Da giovane aveva lavorato lungo quelle strade. Aveva posato con le sue mani le linee telefoniche, le linee elettriche, la rete idraulica. Ora, nella sua seconda giovinezza, lasciati gli obblighi lavorativi – presto ché non si sarebbe detto tanto vecchio, probabilmente aveva iniziato a lavorare da bambino – lontano da occhi indiscreti, tornava a godere quanto all’epoca gli era passato tra le mani. Del resto, granché non aveva messo da parte, pur conducendo una vita dignitosa. Gli svaghi si riducevano a poca cosa. Ritornava ad ammirare una ricchezza che non gli aveva reso ricchezza. Ricchezza… un disastro. Il tempo aveva consunto la rete idraulica e, ogni tanto, i lavori di manutenzione sulle strade avevano interrotto quella elettrica. Sulla loro strada, infatti, incombeva il buio. Egli sapeva perché. Aveva visto, giorni prima, operai all’opera. Si era fermato, ne aveva chiesto il motivo. Si era intrattenuto a parlare del più e del meno con gli uomini in campo che avevano, distrattamente, risposto al suo contatto. Gli avevano raccontato le strane traversie inscritte sotto–sopra l’asfalto. In pratica, avevano motivi di sospettare la fragile tenuta della rete idrica. Le tubature erano marce, minacciavano un crollo improvviso. Lo sapevano tutti, però… tira a campare. Lo sapevano loro che, per posare i tubi delle fogne, le avevano urtate e rotte ripetutamente. Altrimenti non avrebbero potuto fare. I servizi erano stati interrati, suo malgrado, in modo così caotico che, ovunque avessero battuto, avrebbero causato danni. La linea telefonica, l’illuminazione pubblica, quella privata, avevano spesso cessato di funzionare. Ma, soprattutto, erano stati causati danni alla rete idrica. Un vero ritorno tematico nell’opera jazz lanciata lungo la strada. L’improvvisazione montava una nota costante quando il caterpillar allungava il braccio biforcuto vangando enormi manciate di terreno.
Certo, anche loro, avrebbero potuto prestare attenzione, muoversi con cautela. Inutile starci a pensare! La vita andava di corsa. L’epoca aveva prodotto la frenesia hard pop, il free jazz. La pala, il martello pneumatico, cedevano inesorabilmente il passo ai mostri ferrati: acceleravano la resa senza pietà. Vsevolod era intrigato dal paragone musicale. Sapeva che durante un’improvvisazione jazz l’errore poteva essere contemplato, bastava eseguirlo velocemente. Specchiava la filosofia del detto: ”Non vi preoccupate dei danni sul campo, basta arrivare presto alla meta”? No! Era piuttosto una citazione dell’errore, lo prevedeva ai posteri. Qui nasceva il malinteso col presente. Vsevolod avvertiva una lacerazione nel suo tempo. Da una parte si vagheggiava il mito del primato raggiunto ad ogni costo, abbandonando i danni lungo il percorso, dall’altra il bisogno di certezze faceva vagheggiare malinconici “ritorni all’ordine”, un ordine privo di errori. C’era da chiedersi perché nessuno avesse pensato a rallentare folli corse, salvando i percorsi estetici, le briosità formali. Erano questioni complesse. Mettevano in campo l’uomo steso su una bilancia, tra respiri vitali e vendite porta a porta, magari via etere, mentre più in là un sognatore fermava il passo tenendo in equilibrio una bicicletta.
Egli sembrava inconsapevolmente padrone della valutazione errata. I suoi simili, recepiti i danni della velocità esasperata, avevano trovato un capro espiatorio: i prodotti che a loro dire l’avevano generata. Erano talmente compromessi da barare con loro stessi. Li avevano smembrati con le loro pretese, ora li accusavano. Solo gli stava a cuore un profitto sfrenato. Iniziavano a processare il cane invece del padrone, l’automobile invece del guidatore… e così via. S’invocava un rigore senza processo, bello e fatto. Sotto sotto, la cattiva coscienza cercava una velocità senza limiti, o meglio, forme che potessero celarli. Abbasso la ricerca, allora! Ogni ricerca evidenziava fragilità. Ma era indispensabile conoscerle per superarle, non una perdita di tempo! Piano piano, si era infiltrata una repressiva banalità passatista, apparentemente sana e forte, lungo il mito futurista, l’eccelso mito: la velocità; un girare la testa altrove quando si aprivano ferite, per continuare a credersi integri. Bisognava rimuovere i dolori epocali.
Il suo interlocutore viaggiava in bicicletta. Aveva compreso la perdizione?
Perso nelle sue elucubrazioni, chiosava: ”Non chiudete le strade sugli errori commessi, rendetele accoglienti. La ricerca è vita, conosce i suoi residui poi li abbandona. Procura danni, vero? Ma chi non li procura? Lo sappiamo bene. Il fatto è che devono restare nascosti. Un discorso che li cita è un cattivo discorso. La realtà li ignora”.
A questo punto il pensiero di Vsevolod s’interruppe. Riprese ad ascoltare il ciclista, là davanti a lui. Lo aveva superato.
– Solo volevano dirmi… volevano considerassi gli errori commessi, soprattutto la grande opera.
Insomma, ripetutamente ci avevano messo una pezza. Chi sbaglia paga. Avevano rattoppato fili, tubi; concluso il lavoro; posate le fogne accanto a un dedalo aggrovigliato di fili, di tubi. Ma si restava nelle mani dell’Altissimo. La rete idrica prima o poi avrebbe richiesto uno scavo. Vsevolod comprese. Il paese si stava impoverendo. Sorgevano percorsi a tentoni. Una pezza a destra, una a sinistra… ma sotto la cenere fuoco covava. Il ciclista aveva redarguito gli ex colleghi.
– State attenti, è un peccato.
– Dobbiamo far presto. I soldi sono pochi. Si era sentito rispondere.
Fumata la sigaretta, richiamò il cane con un fischio e proseguì il suo cammino. Conosceva la preghiera di quella gente. Diceva: ”Signore, fammi lavorare per chi mi paga e non mi capisce, piuttosto che per chi mi capisce e non mi paga”.
La realtà incalzava. Era un segno. Il ritorno era vicino. Lo avrebbe ritardato. Sarebbe rimasto immerso in se stesso, allungando le sue meditazioni. Sapeva, però, ormai innestato il conto alla rovescia. Lo indicava la prossima alba, lo indicava l’incontro improvviso. Altri ne sarebbero arrivati. Ciascuno avrebbe raccontato un adattamento, nostalgica perfezione smarrita! Vsevolod ne era certo. I campanelli suonavano l’allarme. Il suo volo stava planando. Quando era partito lo aveva preventivato. Da questo momento – solo – non voleva rinunciare a costruire un metro. Un termine voleva mantenere con i piedi nel fango e gli occhi al cielo. Presagiva le beghe, le grane, i percorsi contorti, quanto apparteneva al tenere i piedi a terra. Ma qui, non si esauriva la sua vita. L’orizzonte ristretto invitava a saltare.
Sotto i piedi scricchiolava la prima brina. Piccole voragini incrinavano il cammino. I punti lacerati lievitavano. Il corpo sospeso esalava un odore innocuo. La polvere accumulata si purificava. Continuare fu un gioco da ragazzi. La strada spingeva col suo fascino speciale. Un vago ottimismo allungava il passo. Ricordava le orde sconnesse, gli intasamenti, la confusione, i bluff, il rigore assente. Onde stantie attraversavano l’anima. Un’aria procellosa. Vsevolod credeva in un cammino diverso. Lungo la notte avrebbe progettato il giorno. Lasciandosi andare, lo avrebbe messo in bottiglia. Siccome nessuna bottiglia lo avrebbe contenuto, nemmeno un numero infinito avrebbero potuto farlo, capì: c’era una speranza. Ritrovava ancora la voce di Dio dentro l’uomo. La sua parte immortale. Ci voleva un sorso, un goccetto, peccato. Tirò avanti, a qualcuno avrebbe raccontato il suo viaggio. Altri lo avrebbero fatto vicendevolmente. Tanta confusione poteva solo cullarli. Bastava narrare.
– Serriamo le fila. La vita cambia, non cambia facilmente l’uomo. Comune destino è la distruzione? Qualcuno avrà voglia di ricostruire. Pensieri positivi allungheranno il passo. Nell’alba, inavvertitamente, salirà un’evoluzione. Saremo semplici compagni di strada.
Inclinava al lirismo, ammuffiva. Avrebbe estratto la penicillina. In verità, era un saluto agli amici esausti dei tempi passati. Forse, testardo, voleva rinvenirne altri lungo la strada. Gente scottata d’alterne vicende, assetata, eppure pronta a riempire bottiglie.
I vecchi amici avevano messo su casa, allevavano la prole, seguivano pratiche incombenze… uomini! Un’intenzione nobile. A Vsevolod non dispiaceva, però la immaginava immersa nella carica dei trascorsi entusiasmi, convinto che chi sarebbe diventato giovane tardi lo sarebbe stato sempre. Gli amici, invece, sembrava fossero diventati tutt’uno con le strade; non con la strada, con le strade: fuoco covava sotto la cenere. Il fuoco bruciava la cenere, l’estremo sembiante… sempre cenere bisognava diventare. Vsevolod voleva diventarlo sereno; incompiuto, come diceva qualcuno. L’universo lo era, perché lui no? Le più grandi opere di Michelangelo lo erano, perché lui no? Però, voleva loro un gran bene, un bene che supponeva ricambiato. In gioventù avevano immaginato futuri mutamenti. Mentre Vsevolod continuava a bucare la sua immaginazione, quelli avevano raggiunto la compiutezza. Era sorta una condizione inconciliabile. La vicinanza recava disagio, per cui… accettavano la lontananza.
Comunque, aveva incontrato altri amici. Li definiva seccati nell’arido clima mondano. Erano gli amici–nemici, i competitivi; le conquiste dell’età adulta, quella che bandisce i sentimenti. Una volta, a ragione lo credeva, durante una festa attentarono al suo portafoglio. Dalla paradossale esplosione di antagonismo isterico derivò un piccolo danno. Avevano celato una sofferenza che, all’improvviso, spezzava la catena e mordeva. Nutrivano una visione feroce del mondo, un luogo più buio dei recessi dove avevano spinto il loro dolore. Qui gli uomini erano destinati ad azzannarsi l’un l’altro. Certo! Non si vedevano, erano sconosciuti. Come loro a sé stessi. Infatti i primi morsi li destinavano alla loro vita, lacerandola. Erano compiuti.
Gli incontri hanno una parte iniziale fiduciosa e serena, a volte superficiale, spesso indifferente. Egli cercava, cautamente, una reciproca accoglienza. Quasi trasmetteva un accomodamento. Abbandonava preoccupazioni, formalità, ma non era ingenuo. In cuor suo rammentava: ”Siamo fatti di polvere, andiamo avanti”. Difficile capirlo, ne era cosciente. Il deserto avanzava, un vero guaio. Più la sabbia prendeva piede, più gli uomini sviluppavano presunzioni impreviste toccando la loro essenza. Sembravano babà accarezzati dallo sterco di cammello. Secchi esternamente, pronti a franare interiormente. Vsevolod, invece, aveva un’idea schietta e progressiva del creato. Ciò nonostante, aveva preso atto che il mondo girava diversamente.
Le uniche eccezioni, nel punto fermo, restavano i Kappa e i suoi maestri. Un giorno avrebbe narrato l’occhio del maestro, quanto ai Kappa li considerava un avamposto lungo la strada. Insieme, miravano un’evoluzione. Sui tre compagni di strada pendeva una prova, il tragico grido di Aiace rinsavito:
… pur ora ho appreso
i limiti dell’odio e dell’amore:
ad odiare il nemico che tu odi
come se un giorno ti dovesse amare,
a sostenere, ad aiutare l’amico
come chi non per sempre sarà tale:
ché, l’amicizia è, ai più, porto malfido.


*Clemente Napolitano,
«'O compagno», in AA. VV., La Madonna del Latte 10 racconti per 10 anni, Palma Campania, Michelangelo Communications, 2007.

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