L'attore: voce dell'uomo*


   

 

L'attore, nella fase di preparazione, cioè di educazione vocale, lavora su elementi fisiologici: respirazione, altezza, registri, intensità, regolati da un ritmo biologico. Se nel periodo strettamente pedagogico queste funzioni sono percepite meccanicamente, una volta assimilati gli esercizi ed educata la voce, nell'emissione esse ritornano al loro «ritmo» di base. L'attore nell'esprimersi non pensa ai toni alti o bassi, a come muovere le labbra ecc.: sono le sensazioni intrinseche ad attivare la ritmicità biologica degli elementi fisiologici della voce che, libera da ostacoli, vive nella ritmicità delle vibrazioni muscolari che la producono.
L'«animale da palcoscenico» esprime, trovando ivi necessario fondamento, il codice di emozioni proprio del comportamento analogo di uomini e animali, da cui dipende in gran parte l'inserimento affettivo dell'uomo nella sua società.  Si tratta dello spazio in cui, prima della simbolizzazione dei fatti biologici coesistenti nell'ambiente sociale, si esprime il sentimento di benessere o disagio, il condizionamento visivo, quello uditivo, quello olfattivo... È la matrice di un'estetica paleontologica originata dalla sensibilità viscerale e muscolare profonda, dalla sensibilità dermica, dai sensi dell'olfatto e del gusto, dell'udito e della vista.
Ci sono attori che per tutta la loro vita cercano questi impulsi intrecciandoli con le diverse correnti culturali: attori organici i cui gesti rappresentano la fine di un processo interiore, che parte dall'interno del corpo, così come la voce che porta le parole, e non viceversa.
Tale linea di ricerca, nel teatro del Novecento, anche da un punto di vista filosofico, si è orientata verso due correnti di pensiero: l'una tendente all'aspetto ontogenetico, l'altra a quello filogenetico. 
Va ricordato come gli antroposofici Rudolf Steiner e sua moglie (l'attrice regista Marie Von Sivers) giungono alla teorizzazione dell'euritmia, una forma di allenamento che permetterebbe di armonizzare la realtà interiore con quella esteriore eliminando le resistenze del corpo e normalizzando l'andamento ritmico dell'organismo attraverso la respirazione. «L'euritmia interiore deve vivere nella parola parlata, affinché l'euritmia esteriore possa venir espressa artisticamente con la figura umana che traspone la parola in gesto, il ritmo poetico in movimento, la costruzione, l'architettura della poesia in forme spaziali
»
(1).
Il risvolto idealistico è rappresentato dalla «spiritualità sensibilmente percepibile» dei significanti, e dalla razionalità dei significati, essendo le reazioni emotive direttamente collegate alla sonorità delle parole più che al loro concetto. Ciò costituisce una posizione fonosimbolica già discussa nel Cratilo di Platone, innestata in una sovradeterminazione teosofica, che presuppone il linguaggio donato agli uomini dalle sfere celesti. La degenerazione umana allontana gli uomini stessi dal senso del suono e del ritmo, ma il ritorno all'armonia, al già dato come ordine prestabilito, li rigenera. La considerazione dell'ambito filogenetico nell'acquisizione delle lingue, non si spinge allora oltre la vivificazione del già esistente, evitando l'esperienza dissacrante e tragica della composizione di nuovi suoni. Si potrebbe dire che l'armonia è nella purezza dei bambini.
A tutt'altra concezione approda Artaud pur muovendo dal connubio col sapere esoterico.
Artaud identifica il teatro con l'inquietudine di un mondo tangente al reale, la cui vocalità oscilla tra toni naturali e artifici irritanti quali sono le variazioni timbriche, le pause, i ruggiti, le grida, gli innalzamenti di tono. Si prospetta la primitiva universalità della scena geroglifica, la ricerca dei rapporti ecoici racchiusi nelle sillabe. Negli ultimi anni della sua vita, quest'autore, a fronte di una grammatica da trovare, giunge al tentativo di riformulare le parole nei termini delle tensioni magiche e fascinatrici delle sillabe. Se i neologismi sovvertono l'ordine della parola, la glossolalia garantisce l'illuminazione delle zone riposte e oscure della lingua. È il momento in cui, citando Thomas Mann, «l'inizio della musica coincide con la musica dell'inizio». Il teatro si allontana dalla teatralità divenendo poesia; la poesia va oltre la forma scritta sviluppandosi in vocalità, in un atto estremo di purificazione.
Un bambino «primitivo»: ecco l'immagine dell'attore del Novecento attraverso la 
phonè; l'azione senza sforzo e l'esploratore del proprio corpo e del proprio ambiente; l'emblema del valore banalmente zoologico della specie umana e nel contempo la proiezione della luce che sublima questo nucleo nella realtà attraverso l'immaginazione. Un essere dotato di puro istinto, di un atto d'amore e rivelazione: non imposta la voce, né la controlla volontariamente; ne esprime la profonda umanità. Tra desiderio e umiltà, un essere provocatorio legato agli impulsi più intimi del suo corpo.
È il mito dell'attrice divina che rifiuta la proiezione delle sue passioni sui personaggi da incarnare, cercando di rendersi trasparente nell'accoglierli, seguendo naturalezza, verità, semplicità.
La voce di Eleonora Duse non rispecchia le convenzioni che vogliono la prima donna dotata di gola di bronzo: é esile, svuotata, di testa. Una vocina in minore che sforzata nelle sue possibilità si arrochisce, tende a un timbro gutturale; priva della grazia e dell'andamento melodico tradizionalmente inteso, quasi rivelante dissonanti sfumature, travagliata da una limitata gamma sonora e dal tentativo di infrangerla. Una  dizione inquieta la sua, franta, priva di logicità e chiarezza. Ogni personaggio rappresentava una nuova modulazione, proponendosi l'attrice come puro diafano. «Il comune denominatore mattatoriale consisté nello spostare l'arte grande–attorica del movimento dentro all'interpretazione delle battute; accentazione, questa, che fece del mattatore un attore prevalentemente di voce, capace di affascinanti modulazioni (nacquero allora – credo – i diagrammi vocali tipici ancora degli attori italiani non riformati), e un artista inquieto in cerca di nuove indipendenze»(2).

È il mattatore Zacconi a rivendicare maestri in grado di educare la voce degli allievi e, attraverso la voce, la loro spontaneità. Un monito per quanti avrebbero ripreso il mito della vocalità sclerotizzandolo in anguste sfere accademiche, nonché avvolgendolo su se stesso in tecnicistiche  volute barocche.
Tra melodia e rumore, meditazione ed esuberanza, tra lirismo e drammaticità, si profila un'intelligenza scenica fatta di semplicità e umanità: quelle virtù che Verdi indicava agli interpreti del suo Otello.
Oltre le indubbie differenze poetiche, una genia di attori ha trovato un equilibrio vocale da cui muovere verso l'astrazione formale o l'espressione ordinaria: cioè il parlare come si parla nella vita. La naturalezza è stato punto di riferimento costante, naturalezza intesa come minimo sforzo per il massimo di intensità o minimo di presenza fisica per il massimo di presenza scenica.
A questo punto il cerchio sembra chiudersi introflettendosi sulla realtà interna che produce varietà e potenza di inflessioni, dizione rapida e netta, giusta intonazione, elasticità articolatoria, cioè quel complesso  di elementi che confluendo fanno «correre la voce».
Ribadita la necessità di un bravo maestro che faccia prendere coscienza all'allievo dei suoi limiti e delle sue capacità, gli insegni a custodire il bene prezioso della voce, gli faccia verificare l'organicità della triade corpo–voce–mente, altrettanto fondamentale risulta un metodo capace di prevedere l'informazione, dopo la formazione, al fine di evitare un eccessivo controllo volontario bloccante la spontaneità. Dullin così lo descrive: «Ti dirò anche che il giorno in cui sentirai la tua respirazione non più come dei noiosi esercizi di ginnastica quotidiana, ma come una sorgente limpida [...] avrai la chiave che apre tutte le altre porte della tecnica dell'attore [...] devi dirti che un testo, per vivere, deve poter respirare, come te»(3). Questo per non cadere in: «[...] una dizione biascicata, un affanno che stanca lo spettatore, la cattiva abitudine di accentuare una parola per sottolinearne l'importanza, la cantilena d'attore tragico che non lascia il tempo né la possibilità di comprendere ciò che viene detto, la piattezza di sfumature, la mancanza di equilibrio e di autorità, il panico ingiustificato, il nervosismo, l'assenza di ritmo ecc.»(4). Dunque si ripresenta la necessità di superare la differenza interno/esterno, il divario tra organicità dell'attore e artificialità di un testo. La condizione ottimale per raggiungere il fine matura nella fase di formazione, e sostiene poi l'espressione. In sostanza non c'è differenza tra il modo di eseguire l'esercizio e l'interpretazione: la spontaneità è fondamento di entrambe le fasi, un allenamento alla libertà attraverso la costrizione.
Sotto il profilo tecnico, l'espressione vocale può essere intesa come modulazione delle caratteristiche dei suoni senza alterarne, a meno che non sia ricercato, la «tonalità». La laringe umana rappresenta il mezzo più idoneo a produrre ogni sfumatura, essendo uno strumento «vivente» connesso all'apparato nervoso sensitivo–motorio. Infatti ipotonia, ovvero spasmo dei muscoli da ipersensibilità, eretismo nervoso, insufficiente senso dello spazio, uno stato di eccessiva auto–critica, difetti di concentrazione e turbe della memoria possono tutti quanti compromettere la voce dell'attore, limitandone la capacità di cogliere la ritmicità. Alcuni hanno facilità a produrre ritmi musicali ma difficoltà nel memorizzarli; altri riescono a compiere movimenti ritmici con una parte del corpo ma non con il resto. Alcuni stentano ad abituarsi a certi automatismi, altri ancora hanno difficoltà a non compiere un atto automatico ormai acquisito.
Educare la voce significa liberare l'energia del corpo/mente dagli ostacoli che impediscono il flusso degli stimoli e il riflusso delle reazioni. La voce è il corpo su cui le reazioni scivolano producendo un attrito minimo; rappresenta il percorso levigato che rende l'impulso già reazione. Per ciò si può addirittura affermare che la voce libera anima e corpo. La dilatazione della sensibilità muscolare e della memoria sonora non implicano, infatti, alcuno sforzo fisico ed emotivo. L'attore si abbandona al processo creativo senza preoccupazioni: non deve condizionarsi attraverso un'emotività forzata: la voce è già emozione. La voce, sia la propria che quella di un compagno di lavoro, stimola la memoria sonora da cui parte lo sviluppo  delle reazioni associate al gesto e alle sensazioni che vivono nell'inflessione vocale udita. L'elemento psicomotore del suono organizza spontaneamente le risposte fisico/sonore sulla cui produzione muscolare l'attore non ha controllo cosciente: esse nascono spontanee, come accade nella vita di tutti i giorni. Allo stesso modo il cardine della vocalità (la respirazione, automatica o fonatoria) non ha formule definitive. Non esiste una respirazione «particolare» per l'attore: si tratta solo di potenziare la respirazione «naturale» evitando di sistematizzarla in formule troppo rigide.
Nella respirazione fonatoria, al sorgere di nuove necessità fisiologiche, è necessaria la partecipazione dei muscoli respiratori toracici, senza escludere l'azione fondamentale del diaframma. L'attore non si rifà al sistema respiratorio standard: addominale o toracico. Il controllo cosciente, finalizzato alla realizzazione dell'uno o dell'altro, causa l'alterazione del normale funzionamento bio–respiratorio, comportando mancanza di sicurezza nel movimento, ricezione affettiva generalizzata, mancanza di equilibrio e armonia. Al contrario una giusta concezione respiratoria, potenziata nella coordinazione dello sviluppo delle componenti addominali diaframmatiche toraciche, ammorbidisce il corpo facilitando l'emissione vocale. Sia la produzione sonora, sia il suo sostegno, trovano nell'elasticità muscolare l'elemento portante della loro amplificazione. Un suono non si propaga allo stesso modo in un corpo muscolarmente elastico come in un pezzo di legno. Il suono è vibrazione, la vibrazione movimento, trasmissibile da fibra a fibra: quindi l'emissione sonora fa vibrare per simpatia tutto il corpo. E probabilmente la vibrazione prodotta sostiene il suono reversibilmente. A tal proposito, affermando che la mano si comporta da risuonatore, si esprime un concetto relativamente giusto: la mano rimane un elemento vibrante. È possibile definire risuonatori tutte le zone del corpo attraversate dall'onda sonora e dall'aria diretta – liberamente – verso l'esterno. Infatti se il controllo volontario della respirazione ne turba la naturalezza, l'utilizzo condizionato dei risuonatori, la volontà di parlare con una voce di petto o di testa – attraverso la compressione dell'aria in queste zone del corpo – rende la voce artificiosa.
Il «condizionamento» dei movimenti fisiologici pregiudica l'emissione. L'unico impulso volontario resta la produzione sonora, che trova nell'articolazione il punto di convergenza del flusso vocale.
La formazione vocale dell'attore non dipende dalle voci di petto o di testa, quanto piuttosto dalla voce adeguata alla personalità e alla tessitura dell'individuo, dalla voce naturale rafforzata dall'azione simultanea  dei risuonatori. Essa è condizionata dall'autoascolto, indice di estetismo vocale teso all'entropia del tecnicismo; trova un valido punto d'appoggio nell'equilibrio psico–fisico dell'attore.
La voce naturale è una prerogativa della formazione tecnica e fa leva su un impulso dinamico che impegna tutto il corpo partendo dal suo «centro», e potenzia la voluminosità del suono prodotta dall'ampiezza della cassa armonica, dalla vibrabilità delle pareti, dalla loro buona conformazione, dalla quantità di massa vibrante, che permette la formazione di molti armonici accordati perfettamente col tono fondamentale. In altri termini, l'emissione naturale della voce produce un timbro «omogeneo» in tutte le tre regioni dell'estensione: bassa–media–acuta. Caratteristica quest' ultima dei cantanti raffinati, che mirano a distribuire una luce omogenea per tutta l'intera gamma delle due ottave, curando il passaggio fra le tre regioni dell'organo vocale.
La risonanza di «petto» e quella di «testa» si escludono completamente nell'esecuzione delle note di falsetto, o cantando e parlando, attraverso la sensazione di inviare la propria voce verso il soffitto, non utilizzando cioè la voce abituale. Le stesse definizioni di «petto», di «testa» e «misto» (che indica le zone di passaggio) derivano da sensazioni soggettive della risonanza della cassa toracica e non vanno intese come divisioni assolute, scompartimenti stagni. Se nell'esecuzione delle note basse risuona prevalentemente la cassa toracica, e in quelle delle note alte gli organi sopraglottidei, nella tessitura di tenore, che rappresenta la più alta tra le voci maschili, un acuto dato con risonanza completa di testa è falsetto, voce nella voce, non femminile. Le voci femminili, infatti, generate da corde vocali più sottili, risuonano negli acuti della loro tessitura nel risuonatore superiore, accordato per onde sonore di breve lunghezza, ma senza sfibrarsi. Esse restano compatte nella loro gamma, utilizzando comunque tutto il corpo (nella situazione ottimale) anche se il risuonatore inferiore, accordato per amplificare onde sonore medio–lunghe, non rinforza la voce acuta femminile con armonici medio–bassi.
Il passaggio agevole nei tre registri è permesso dal punto d'appoggio, corrispondente al punto d'attacco. Secondo Lauri Volpi(5) si situa anatomicamente tra la radice della fronte, ove si inserisce il setto nasale, e il margine delle fosse nasali. In tale regione vanno proiettati i raggi sonori provenienti dalla glottide, evitando la nasalizzazione accentuata o totale del suono. Il riscontro è dato durante la sua produzione stringendo con le due dita le pinne nasali: se s'interrompe la voce diviene nasale. Il punto d'appoggio, che provoca la sensazione di un colpo facciale interno nell'emissione vocale, dona al suono carattere ampio, timbrato, dovuto all'aiuto delle risonanze superiori e all'appoggio diaframmatico della colonna d'aria. Tra diaframma e palato si determina una pressione aerea elastica che dà la sensazione di coordinazione tra gli estremi. Tale elasticità pressoria induce uniformità periodica delle vibrazioni laringee, favorendone la libera propagazione e la conseguente graduale intensità dell'espirazione. Fin dalle note medie la voce collocata in «maschera» è preparata all'attacco delle note superiori, cosicché la saldatura avviene naturalmente. Con la stessa spontaneità, libertà d'attacco, è possibile scendere ai toni bassi senza ingolarsi, emettendo suoni corposi e risuonanti. La zona dei seni frontali coordina l'emissione vocale, favorendo per tutti i suoni, a qualunque regione appartengano, la partecipazione delle cavità di risonanza superiori. Senza punto d'appoggio il diaframma scatta a vuoto, «come un pugile che, invece di colpire il bersaglio, assesti pugni nell'aria, rischiando di slogarsi il braccio e la voce laringea non trova la diritta via delle risuonanze. La voce, a lungo andare, si smarrisce, falseggia e si perde, dissociandosi dall'articolazione»(6)
È ovvio che amalgamando il timbro, curando i passaggi tra i vari registri, partendo dall'acquisizione di un bene e delle sue potenzialità, ognuno è libero di utilizzare la voce che vuole, senza con questo perdere il proprio equilibrio. Il discorso vale rispetto alla dilagante invasione tecnologica che, se ha liberato l'uomo dai limiti spazio–temporali imposti alla comunicazione, d'altro canto lo ha assoggettato, riducendone le potenzialità organiche. Il microfono dovrebbe rappresentare solo uno strumento: invece molto spesso fornisce il timbro vocale; l'interruttore il volume, basta un po' di fiato, ed ecco sonorità smorzate e frequenze ampie.  Caruso cantava negli stadi senza microfono: una voce tragica la sua, unica per certi versi, sicuramente inesistente tra i cantanti contemporanei, così come è difficile reperire un attore tragico. 
La voce radiofonica: rapida, secca, cerebrale (una «mezza voce»!) condiziona e partorisce voci oscillanti tra il sussurro e il grido, compassate, stimbrate, falsamente eleganti. Voci piatte, prive di sfumature.

L'innalzamento delle vibrazioni del diapason del la3 per rendere più brillante il suono degli strumenti musicali, soprattutto per le esecuzioni radio–televisive, comporta una maggiore tensione della voce dei cantanti, con il risultato di indurre «stanchezza» vocale assai precocemente, e completando così l'azione dello stress in un mondo comunque troppo ricco di rumori.
Una volta la voce del tenore non superava il la dell'attuale tessitura baritonale; oggi sono rarissimi, se non scomparsi, i contralti naturali e i bassi profondi. Eppure presso i Greci la voce più bassa era definita hipate, la prima per dignità; lo stesso Giove riceveva l'appellativo di hipatos. Le voci femminili erano escluse dai canti della tragedia e della commedia. Nei generi secondari e nella musica a due voci la melodia era affidata al basso, l'accompagnamento all'alto.
Alla luce di queste considerazioni si può ben dedurre come sotto le sembianze dell'attore si ritrovi sempre l'uomo; cercando la voce artistica l'attore cerca la voce umana, la sua organicità. La voce acquista un senso che va ben oltre la funzionalità del mestiere. L'attore che amiamo è un uomo liberato: un avamposto di frontiera che si oppone alla sostituzione del ritmo biologico con quello tecnico, come il ritmo della macchina, che esclude la partecipazione dei sensi nell'elaborazione delle risposte e tende alla costruzione di uno spazio/tempo programmato solo dal controllo.


(1) Marie Steiner Von Sivers, «Breve schizzo della mia vita», in Rudolf Steiner, Marie Steiner Von Sivers, Arte della parola ed arte drammatica, ciclo di conferenze a cura di Vanna Rizzi Bianchi, Milano, Editrice Antroposofica, 1967, p.10.
(2) Claudio Meldolesi, Fondamenti del teatro italiano. La generazione dei registi, Firenze, Sansoni, 1984, p.17.
(3) Charles Dullin, «Consigli ad un giovane allievo», in Charles Dullin, La ricerca degli dei. Pedagogia di attore e professione di Teatro (a cura di Daniele Seragnoli), Firenze, La Casa Usher, 1986, pp.168-169. 
(4) Ibid., p.169.
(5) Giacomo Lauri Volpi, Misteri della voce umana, Milano, Dall'Aglio, 1957.
(6) Ibid., p.66.


*Clemente Napolitano, «L'attore: voce dell'uomo», in AA.VV., L'uomo la voce la comunicazione verbale (a cura di Mauro Porta), Milano, Guerini, 1993.